Recentemente, nella preparazione del mio ultimo laboratorio di teatroterapia, mi sono imbattuto nel libro “Il corpo consapevole: un approccio somatico ed evolutivo alla psicoterapia”, della pedagogista del movimento e psicoterapeuta somatica di orientamento gestaltico Ruella Frank.
Nel teatro, infatti, la consapevolezza del corpo, come mezzo di creazione e di espressione, riveste un’importanza fondamentale e lo diviene ulteriormente in un contesto terapeutico, soprattutto se di orientamento gestaltico. Quindi, se da un lato non c’è da stupirsi di questo incontro, dall’altro quello che ha attirato maggiormente la mia attenzione è stato il ritrovare, nei sei movimenti fondamentali proposti dall’autrice, alcune dinamiche psicofisiche da me utilizzate all’interno della conduzione di laboratori precedenti. Senza entrare nei dettagli, questo modello offre una versione cinestesica integrata dello sviluppo biologico e cognitivo della persona unendo alcuni dei Pattern Neurocellulari di Base del Body-Mind Centering (Bonnie Bainbridge Cohen), alle fasi del Ciclo dell’Esperienza della Psicoterapia della Gestalt (Perls e Goodman). Appoggiandosi, spingendo, raggiungendo, afferrando, tirando e lasciando andare, l’organismo cresce, prende coscienza di sé e interagisce con la realtà.
Tornando al laboratorio di teatroterapia potrei dire che: appoggiandomi su alcuni dei contenuti presentati dall’autrice, mi sono spinto verso l’esplorazione di queste sei modalità di contatto, immaginando altrettanti obiettivi da raggiungere, concetti da far afferrare al gruppo, attività che permettessero ad ognuno di trarre le proprie conclusioni, favorendo un’esperienza di sviluppo personale in cui lasciarsi andare.
Nello specifico, oggi volevo condividere con la rete il primo di questi sei, quello dello “yielding with”, utilizzato in chiave teatroterapeutica. “To Yield” vuol dire arrendersi a qualcosa o a qualcuno, cedere, ma anche dare la precedenza, se si parla di regole della strada. “To yield with” non è un’associazione tipica, significa arrendersi con (l’altro), una sorta di “essere con”, che nelle attività io utilizzo spesso come “appoggiarsi”. Secondo la Frank, questo movimento sta ad indicare l’azione primordiale del feto che si adagia, si modella e si adatta alle pareti dell’utero. Finché il feto galleggia nel liquido amniotico, rannicchiato su se stesso e alimentato dal cordone ombelicale, è un tutt’uno con la madre. Non percepisce i suoi confini perché è parte di un tutto e non è in contatto con nulla. Crescendo, il feto inizia a percepire se stesso grazie al contatto con l’ambiente circostante. Scopre la presenza di un qualcosa che lo contiene ma soprattutto scopre di esistere, come un polpastrello al contatto con una superficie. Certo, il contatto è minimo, inizialmente il feto è piccino e non ha necessità di muoversi. I confini del corpo vissuto appaiono sommari tuttavia, gradualmente, l’esperienza dell’appoggio inizia a fornire informazioni, pre-riflessive, sul senso del peso, del volume e sulle parti di sé che toccano le pareti dell’utero. Si tratta di un tipo di esperienza che la Psicoterapia della Gestalt definisce “pre-contatto”. Rimando ad un’altra sede la sua definizione, in questo momento basterà dire che è un tipo di stare al mondo in cui sono presenti molte possibilità di azione ma di scarso interesse. Nella fase successiva, quella in cui il feto cresce di volume, inizia ad emergere la necessità di spazio, la scomodità aumenta e quindi subentra il secondo dei movimenti della Rank, quello dello spingere, o “pushing against”, di cui parleremo la prossima volta.
Tornando alla teatroterapia, questo primo movimento offre una prima forma di relazione, del partecipante, con sé stesso e con l’ambiente circostante. In questo incontro, il soggetto si fa tale entrando in contatto con un oggetto. Cedendo ricevo appoggio e ho l’opportunità di conoscere solo quella parte di me stesso messa in evidenza da quel tipo di contatto. Il contenitore si fa contenuto, “the medium is the message”, come direbbe il filosofo Marshall McLuhan. Dal mezzo, che può essere una superficie, un movimento o qualsiasi tipo di contatto, ricavo inevitabilmente delle informazioni su di me, che potrò decidere di prendere in considerazione o meno. Certo, nel pragmatismo della vita di tutti i giorni il mezzo è soprattutto legato ad una finalità esterna e l’importante è cosa ci si fa. Tuttavia stare nel “come si utilizza”, nel “cosa si sente nel farlo”, nelle modalità di appoggiarsi ad un oggetto o ad un soggetto, quindi anche ad un lui o ad una lei ad esempio, possiamo ritrovarci e scoprire alcuni aspetti di noi che proiettavamo solo all’esterno, sulla superficie di appoggio o sul mezzo, e invece facevano anche parte di noi. In breve, non c’è oggetto senza soggetto.
In questo primo movimento, gli stimoli che ho proposto hanno riguardato modalità unidirezionali attraverso cui sperimentare una pressione tra superfici. Il contatto ha creato un luogo percettivo, ad esempio quello della pianta del piede poggiata a terra, da definire focalizzandosi sulle informazioni che riguardano il corpo del soggetto che esperisce e non quello della realtà esperita. Dall’ascolto di quella parte che non è il tutto, pur includendolo in termini di peso ad esempio, il lavoro si sviluppa proprio nell’intuire come quella parte parli del tutto, riconoscendo il valore e i limiti del suo essere parziale. Come quella parte contribuisce a distribuire il peso? E cosa dice quella scelta distributiva di noi?
Un altro lavoro interessante è stato quello di lavorare con i sinonimi del verbo cedere: venir meno, cadere, indietreggiare, ritirarsi, arrendersi, rinunciare, accordare (cessione), abbandonare, abbandonarsi e adattarsi. Anche in questo caso, il come ciascuno lo agisce viene utilizzato per parlare del suo essere attore, più che del contesto dell’azione a cui si appoggia.
Allo stesso modo è possibile lavorare con la forma aggettivata del verbo, cedevole, riferendola a cose o a persone. Quando siamo cedevoli? In che situazioni reputiamo utile o necessario, adattarci, non opporre resistenza, cambiare o lasciarci cambiare? Come lo facciamo e come tutto ciò parla di noi?
Lavorando in questo modo, prendendo consapevolezza di come ciascuno di noi cede e imparando a farlo in maniera soddisfacente, diviene molto più semplice applicare questa competenza in situazioni specifiche utilizzandola come un prefisso. In questo caso il “saper cedere” diventa propedeutico per migliorare il proprio accedere (a o ad = moto verso luogo; entrare), concedere (cum = unione; seguire l’appoggio), recedere (re = ripetizione; appoggiarsi fino all’allontanamento estremo), eccedere (ex = da, fuori, via; spingersi oltre), incedere (in = dentro; avvicinare l’appoggio al centro della questione), precedere (pre = anteriore; anticipare l’appoggio), decedere (de = allontanamento; togliere l’appoggio), procedere (pro = avanti; portare avanti l’appoggio), retrocedere (retro = indietro; spostare l’appoggio indietro rispetto al centro della questione), succedere (sub = sotto; far spuntare degli appoggi) e intercedere (inter = tra; posizionare il proprio appoggio tra due elementi).
Concludendo, siamo tutti diversamente-cedevoli e per capire in che modo questo e i successivi movimenti parlino delle nostri abilità o disabilità, la strada maestra è quella di entrarci in contatto, facendone esperienza diretta.
Chiunque fosse interessato, in definitiva, potrà appoggiarsi a me e scoprire nuove parti di sé. Di questo ciclo rimangono due incontri, mercoledì 3 e 10 Luglio, dalle 19:00 alle 21:00.
Vi aspetto, previa prenotazione, nel mio studio di Milano, in via Segantini 69.