Camminare è un’attività che facilità la meditazione.

Lo abbiamo provato tutti, andandoci a fare un giro per chiarirci le idee o magari per calmarci oppure perché qualcuno, vedendoci un po’ su di giri, ci ha consigliato di farlo…

In ogni modo, dal pellegrinaggio all’andarsi a fare un giro, ogni passeggiata può diventare l’occasione per osservare il mondo esterno e dialogare col proprio mondo interiore.  A volte questo dialogo si estende anche al mondo esteriore, ritrovandoci a parlare con persone, oggetti, piante o animali.

Quello che differenzia una camminata inconsapevole da una consapevole è il dove mettiamo la nostra attenzione. Quando la mettiamo sul presente, interno o esterno, siamo consapevoli di ciò che accade, dentro o fuori di noi. Questa loro qualità, in diverse forme e sotto doversi nomi, viene apprezzata da millenni proprio per i suoi effetti benefici. Le tecniche più conosciute e sistematizzate sembrerebbero venire dalle antiche discipline orientali, madri delle più recenti tecniche di mindfulness. Tuttavia, come dicevo, anche i pellegrinaggi occidentali, tra cui il famosissimo cammino di Santiago de Compostela, rientrano in questa tipologia. In ogni caso, volendo rintracciare delle somiglianze, potremmo accomunare queste esperienze per il loro potere di:

  • regolare la respirazione, adattandola alle esigenze fisiche individuali;
  • attivare il corpo, influendo sul metabolismo, sulla gestione dello sforzo e sulle necessità di riposo;
  • amplificare i sensi, permettendoci di focalizzare la vista, amplificare il tatto, acuire l’ascolto, l’olfatto, il gusto e la propriocezione;
  • mettere a tacere il “rumore mentale” e aprire lo spazio all’ascolto interiore;

La passeggiata gestaltica, presente nel titolo dell’articolo, è un tipo particolare di camminata consapevole in cui la percezione di cosa attira la nostra attenzione diviene un elemento centrale per raccogliere degli indizi che riguardano necessità personali più o meno latenti. Questa metodologia “emergente”, semplice e intuitiva, si poggia sui fondamenti fenomenologici della Gestalt Therapy. Detto in altre parole, l’insieme delle percezioni sensoriali, dei pensieri e delle emozioni che emergono, delle scelte di movimento che mettiamo in atto, apparentemente casuali o automatiche, possono essere utilizzate per definire una “gestalt”, ossia una figura che ha un significato. Non sempre è qualcosa di ben definito, il più delle volte si tratta di una specie di attrattore che mano a mano da’ senso alla nostra esperienza itinerante. Certo, per definire meglio il senso di una “gestalt” ci si può avvalere di strumenti tecnici ben precisi, che aiutano la nostra mente narrativa a trasformare le percezioni in indizi utili a rivelare il bisogno presente. Una volta che si riesce a cavalcare l’onda di significati, si accede a tutti quei fenomeni di sincronicità spontanea, di ristrutturazioni cognitive o insight, che possono trasformarsi in veri e propri momenti di illuminazione. La sorpresa, il momento “wow” scaturisce dall’accorgersi che questi pezzi, del mondo che percepiamo, parlano di noi! Ma come, la realtà non è uguale per tutti? Ebbene…. NO, o comunque non completamente!

Un occhio esterno, diciamo pure neutro, completamente oggettivo, quindi inesistente, potrebbe scambiare tutto ciò per follia. Come poter pensare, infatti, che una fontanella, un cartellone pubblicitario, un turista che ci chiede un’informazione o un fiore a cinque petali abbiano un messaggio da darci? In effetti, molto probabilmente, non sono loro a volercelo dare ma siamo noi che, attraverso di loro, mettiamo in forma i nostri bisogni, desideri e interessi più autentici e attuali. Per questo motivo, in Inghilterra, c’è chi ha ribattezzato questo tipo di esperienza come momenti di “Street Wisdom“, ossia saggezza di strada.

In breve, forse è difficile riassumere la complessità di queste esperienze di consapevolezza, e la cosa migliore è provarle, come avviene quando giochiamo. Rimando i più curiosi a dare un’occhiata al modello del “ciclo dell’esperienza” della Gestalt Therapy, che è uno dei miei riferimenti. Per gli amanti e le amanti della pratica, qui trovate una possibile frase di avvio dell’esperienza:

Cammina focalizzando la tua attenzione sull’ambiente circostante e su come reagisci a ciò che percepisci.

Questa è la consegna principale di un’attività che sperimentiamo tutti i giorni, ma non sempre mettendoci tanta consapevolezza. Infatti, il più delle volte camminiamo in automatico e siamo parzialmente presenti a noi stessi e agli altri. Il nostro corpo, in maniera adattiva, tende a ottimizzare gli sforzi, riducendo l’attenzione su tutto ciò che già conosce o pensa di conoscere. Per questo ci si muove senza fare troppa attenzione a dove si mettono i piedi, o meglio, il minimo indispensabile. Prova a camminare. Probabilmente non dubiti che la terra sotto i tuoi piedi possa sprofondare, dai per scontato che sia solida. Chiamare in causa la consapevolezza piena significa non muoversi in automatico in uno sfondo di certezze ma aprirsi all’ascolto, come se tutto ciò che ci circonda sia nuovo e sconosciuto. Nel movimento di tutti i giorni, il corpo si affida ala mente che ci guida verso un luogo, orientando e allineando percezioni, emozioni, pensieri e movimenti verso il raggiungimento della meta. Anche in assenza di meta, camminiamo sempre in un contesto sufficientemente sotto controllo, formalizzato, pieno di significati già evidenti. Per questo la nostra attenzione può andare altrove, perdendosi in pensieri associativi che ci portano nel passato o nel futuro e, quindi, lontani dal presente. Come diceva Alberto Savinio, fratello del più famoso Giorgio De Chirico, spesso crediamo di andare avanti “quando il nostro illusorio avanzare è in verità un fabbricare passato.” E non è un caso che i surrealisti adorassero queste pratiche, perché volevano allontanarsi dal conosciuto, dalle certezze, e scoprire altri aspetti del reale, oltre la realtà di tutti i giorni. Lo stesso André Breton scriveva: “il surrealismo si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale“.

Adoro questo genere di attività, che uso sia per diletto che come strumento educativo o terapeutico. In questi casi, a differenza dei surrealisti, l’obiettivo non è artistico ma comunicativo, potremmo dire arteterapeutico. Il lavoro, in questi casi, riguarda la messa in forma dell’esperienza che diventa significativa, comunicativa perché parla alla persona fornendogli elementi preziosi per dichiarare le proprie necessità o le modalità, a lui o a lei più congeniali, per soddisfarle.

In breve, riducendo il controllo, sospendendo il giudizio, aprendosi all’ascolto, si accede al “qui e ora”, un luogo mai banale, sempre denso di informazioni che possono essere collegate permettendo alle differenze di fare la differenza, parafrasando Gregory Bateson. Oltre il vero, come dimensione assoluta, esiste una realtà molteplice, luogo di verità parziali, profonde e fugaci. Se vuoi venire a carpirle, tieni d’occhio il calendario degli appuntamenti di Psychopop, il prossimo evento potrebbe essere imminente.

Se non ne sei convint@, prova a farti due passi consapevoli, anche da sol@…