– Ciao come stai?

– Bene grazie e tu?

– Eh, insomma dai, tiriamo avanti…

Quante volte siamo stati protagonisti di una conversazione simile? Probabilmente anche oggi vi sarete già imbattuti in queste forme di convenevoli, tuttavia questi atti di cortesia, anche se a volte possono risultare opportuni, nel senso originario di ob-portus, ossia riescono a portarci verso un porto sicuro, a volte non risultano realmente convenienti. Restare nel porto quando il mare è in tempesta è sicuramente rassicurante ma quando la tempesta non smette potrebbe essere conveniente affrontarla, come fa Shakespeare nel suo penultimo romanzo, la tempesta, appunto. convenevoliLa mia proposta è di utilizzare quello che c’è, in tutta la sua “sconvenienza”, come punto di partenza per quietare le acque. Convenevoli, luoghi comuni, frasi fatte, proverbi, motti di spirito e scorciatoie relazionali in genere, sebbene riescono a semplificare la realtà, a stabilizzarla, dall’altro rischiano di ridurla a tal punto da perderla di vista. Quindi, se volete entrare in contatto autentico con quello che c’è in voi stessi, nell’altro o nella realtà in generale, rallentate le risposte automatiche e lasciate emergere quelle parti sottili in cerca di definizione.

Quindi, come stai, ora?

Prenditi del tempo e ascolta: “sto…..”.

Stai nel vuoto, prima di stare da qualche parte, sospendi il luogo in cui pensi di stare ad un primo sguardo, potresti essere solo impressionato, restare nell’illusione di quello che c’è o che dovrebbe esserci.

Superato l’imbarazzo di dire come stiamo, potrebbe poi accadere che chi ascolta si imbarazzi e cerchi di schiacciare la sua realtà. L’esempio classico è quello in cui parte un consiglio, la voglia di dare una soluzione, un modo per cambiare rapidamente quello stato tempestoso e approdare, finalmente bene, nel porto sicuro. Ma la vita non può limitarsi al porto. L’alternativa tra porto e tempesta è la sospensione della soluzione, del giudizio, stare con quello che c’è. E se proprio emerge una soluzione, non prenderla, usala per capire cosa dice di chi la propone e della parzialità del suo qui e ora. Un ottimo esempio, in questo caso, è quello dei proverbi e degli aforismi, che dicono tutto e il suo contrario:

“Chi fa da sé fa per tre” vs. “L’unione fa la forza”.

“Chi si accontenta gode” vs. “chi non risica non rosica”.

“Chi troppo vuole nulla stringe” vs. “La fortuna aiuta gli audaci”.

Ascolta quale parla maggiormente di te, in questo momento. La risposta non parla di un modo oggettivo di porsi nei confronti della realtà ma del tuo essere soggetto, ora. Riletti in questo modo, i proverbi non sono poi così lontani da come Freud intendeva i motti di spirito, nel suo saggio del 1905, finestre sull’inconscio. La potenza dei proverbi e degli aforismi sta proprio nel semplificare e nel dare un’immagine chiara, univoca e d’impatto ad una realtà che può essere agita immediatamente, senza farsi troppi problemi. L’ingenuità è scambiare il loro essere strumenti, e quindi mezzi, con il loro essere fini, ossia soluzioni o, peggio ancora, descrizioni della realtà. Gli strumenti non solo soluzioni, così come le azioni non corrispondono ai bisogni. Confondere il “fare” con l'”essere” può risultare molto sconveniente perchè ci illude di fare bene e si continua a stare male o a far stare male. Per questo affidarsi alla potenza degli aforismi è pericoloso, oltre che ingenuo, perchè si sottovaluta il loro effetto boomerang che parla di facili colpevolizzazioni, più o meno incoscie.

I convenevoli, come le categorizzazioni linguistiche quindi, non sono delle zone franche ma processi simbolici intrisi di dinamiche sociali e quindi soggetti ad errori e revisioni (Palmonari, 1995). Si tratta, infatti, di “correlazioni illusorie“, acceleratori che scatenano automatismi cognitivi che ci portano rapidamente a stabilire nessi di causa effetto fra eventi indipendenti e, magari, semplicemente coincidenti.

Ma allora, come fare per liberarsi dal peso di un silenzio imbarazzante o di una domanda scomoda che ci viene posta? Forse, iniziando a pensare che la cortesia può essere più violenta della scortesia, quando ci costringe a prescindere da quello che c’è. In altre parole, senza diventare scortesi, è possibile essere antipatici, ossia non avere lo stesso pathos del nostro interlocutore, per essere veri, per regalare la nostra autenticità all’altro, rischiando di non essere simpatici. In questo modo diviene possibile essere veri, dire con garbo, educazione, gentilezza, cordialità, delicatezza, tatto, grazia e premura, che stiamo male, a disagio, disgustati, tristi, arrabbiati, depressi, impauriti senza sentirci in colpa o far sentire l’altro a disagio. Partire da noi, da quello che c’è in quel momento, significa fidarsi della forza della vita e farsi responsabili. L’altro, non cedendo alla simpatia del rispondere potrà avere la possibilità di stare , a sua volta, con quello che c’è in lui, senza cadere nel convenevole, e facendosene responsabile per sé.

Esplorando il vuoto fertile di questi pensieri senza soluzione apparente,  “tiriamo avanti” quello che c’è invece di “tirarci indietro”. Quindi, se vuoi veramente tirare avanti, non ti affrettare a dare un nome alle cose, sfida gli opposti dei proverbi e trova l’integrazione del tuo qui e ora.

gilbert-garcim

Per ora concludo, in maniera pirandelliana, senza concludere, perchè la conclusione non è per forza una fine, anzi…

« La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo ».